Il cane che non aveva un nome

 


Il sole arroventava il sentiero.
Grosse pietre bianche ai margini ne riflettevano la luce rendendola insopportabile, da anni non s'aveva un settembre così caldo. Il cielo, limpido e pulito, l’aria dolce e profumata aiutavano l’estate a rimanere viva. L’autunno rimaneva nascosto tra gli alberi, nell'attesa del suo tempo, colorava in silenzio le foglie, sempre più numerose nell’indossare la loro nuova veste gialla.
Arc avanzava lento e stanco, con la lingua penzoloni; abbandonato il sentiero si sdraiò all’ombra di un grosso albero.
Era un meticcio di dieci anni, vagabondo da oltre nove, un incrocio tra un bassotto e chissà che altro.
Tronco cilindrico e lungo, zampe brevi e tozze, muso simpatico e orecchie lunghissime e dritte, sproporzionate per la sua corporatura; pelo corto e ispido di colore bianco sporco e coda arricciata.
Davvero un brutto cane, ma questo lui non lo sapeva e anche se l’avesse saputo non gli sarebbe importato un granché.
Non doveva essere questo il motivo per cui l’avevano abbandonato in una sera di pioggia, ma nessuno l’aveva più voluto.
Nessuno lo chiamava mai con un nome. ”Bastardo vattene!” gli urlavano. Bastardo. Pure, si chiamava Arc. Era stato strappato dai giochi con i suoi fratelli da una ricca famiglia di città quando aveva tre mesi, con il compito di far felice una bambina di cinque anni. Due cuccioli.
Arc s'impegnava moltissimo per farla felice. Giocava con lei, si lasciava accarezzare, si lasciava fare il bagno anche due volte al giorno, immerso in una schiuma bianca dall’odore per lui sgradevole. Sopportava tutto, le tirate di coda, i fiocchetti troppo stretti intorno al collo e pazientava quando la piccola lo sollevava per le zampe posteriori. Sopportava.
Sapeva che lei voleva giocare, non voleva fargli del male, sentiva che gli voleva bene.
Così stava al gioco, per lei.
Pure lui del resto aveva i suoi divertimenti: tirare le tende con forza, masticare tappeti e pantofole, rosicchiare poltrone.
Con lui però non erano ugualmente pazienti. Pacche sul muso e talvolta niente cena. Ma era bello stare lì, essere chiamati, essere accarezzati. Un giorno però il padrone di casa lo sollevò e lo buttò in un sacco.
Arc si trovò solo in un luogo che non aveva mai visto e per giunta pioveva. Che tristezza.
“Senz’altro una punizione” pensò,” ma perché?” Vagò tutta la notte, pensieroso e triste, desideroso solo di rivedere la sua padroncina.
“Finirà questa punizione, finirà” pensava, ”quando tornerò, sarò ancora più buono”. Ma dopo oltre nove anni lunghi e difficili eccolo lì.
Stanco e solo sotto un albero del bosco, la sua casa.
Da tempo viveva lì, la città era troppo pericolosa per lui.
Quanta fatica vivere, quanta fame da smaltire!
Era diventato un buon cacciatore, Arc, e mangiava di tutto.
D’inverno però diventava ladro. Si avvicinava circospetto alle fattorie e attaccava come una furia i gatti con la ciotola piena, approfittando delle loro momentanee fughe. Non sempre però i gatti si mostravano arrendevoli e visto che lui non era poi molto grosso, erano guai.
Sopratutto ora che stava diventando vecchio. L’agilità era un ricordo, e se prima incuteva almeno rispetto ora...
Sopravvivere era sempre più difficile e mentre meditava sui suoi guai, un giorno dal bosco si sentì un rumore. Arc rizzò subito le grosse orecchie mettendosi sull’attenti.
Nella penombra una figura, un uomo, un vecchio, con una bella barba bianca ed un bastone, gli si faceva incontro.
Arrivato a pochi passi da lui il vecchio si fermò e prese a guardarlo.
Arc lo fissava sospettoso, tenendo d’occhio il bastone.
“E tu da dove sbuchi?” domandò il vecchio.
Nella sua voce c’era gentilezza; Arc, abbassò le orecchie e cominciò a scodinzolare. ”Adesso ci provo” pensò.
Nel corso degli anni, Arc, aveva imparato a mendicare. S'avvicinava ammiccante nel tentativo di rimediare qualche cosa da mangiare o almeno una carezza. A volte andava bene, a volte erano guai.
Ma questa volta non correva rischi, lo sentiva, sapeva che il vecchio non l’avrebbe maltrattato e così si avvicinò pur se cautamente.
“Buono, buono” mormorò il vecchio. “Ho capito, sei un randagio come me, vero?”
Abbassandosi accarezzò il cane. A quel contatto, Arc dimenticò tutto, persino la fame che lo stringeva nella sua morsa impietosa.
Si sentì felice, invaso da un calore che aveva dimenticato.
Qualcuno che sembrava capirlo, finalmente.
Il buon vecchio tirò fuori dalla borsa un pezzo di pane e glielo porse; Arc non si fece pregare e lo divorò. ”Affamato eh? Allora prendi anche questo” e gli diede altro pane, osservando con piacere il cane che si avventava sulla “preda”.
“Ora devo andare” e il vecchio riprese il cammino.
Arc gli si mise subito dietro, i due si addentrarono nel sentiero che taglia il bosco, arrampicandosi su per la montagna.
Il vecchio taceva, avanzava lento ma con passo sicuro a domare il sentiero nel suo tratto più impervio.
Arc seguiva ogni suo passo con il cuore in gola, temendo di sentire ancora gridare ”Bastardo, vai via”.
Ma questa volta no, non poteva, non doveva succedere.
All’improvviso, una casa. Sembrava più un capanno che una casa vera e propria, tutta di legno, circondata dal verde e dal meraviglioso silenzio del bosco.
Arrivato alla porta il vecchio abbassò lo sguardo e disse: ”Visto che sei arrivato fin qui, puoi entrare”. La porta si spalancò e Arc entrò abbaiando felice. ”Buono, buono”, sorrise il vecchio.
L’incontenibile felicità dell’animale non accennava a placarsi e l’uomo si lasciò andare ad una fragorosa risata.
Il bosco ascoltava. Qualcosa di nuovo nell’aria.

Trascorsero giorni meravigliosi insieme. La casa era povera, ma ad Arc sembrava una reggia, persino più bella ed accogliente di quella lontana, nel tempo e nei ricordi, dove aveva fatto giocare una bambina.
Arc, si sentiva felice, passava tutto il giorno vicino al suo padrone, l’osservava lavorare il legno, le sue mani grandi si muovevano veloci e precise, intagliando, creando.
Lo seguiva fin giù al paese, dove vendeva i suoi lavori.
Lo guardava, curvo, mentre lavorava la terra.
Era il suo padrone, ed era buono.
La sera di fronte al fuoco, lo prendeva in braccio e l'accarezzava parlandogli.
Una sera gli disse ”Chissà come ti chiami? Sicuramente hai un nome che nessuno conosce. Come il mio. Sai che farò? Non ti darò nessun nome sarai il mio amico e basta”.
Questo piacque molto ad Arc, il suo nome era l’unica cosa in suo possesso da sempre.
Non ne voleva un altro, lui era Arc e basta. Era felice.
Stringendosi al vecchio s'addormentò.

Arrivò l’inverno, freddo e bianco di neve. Il suo padrone usciva molto meno di prima. S'alzava più tardi al mattino e si coricava prima la sera.
La casa era umida e fredda, solo vicino al fuoco si stava bene.
Una sera il vecchio, appena coricato, lo chiamò vicino a sé e lo fece salire sul letto. Arc si sistemò al suo fianco, con il muso sopra al suo petto. Era bello stare così. Fuori il vento cantava, facendo ballare gli alberi.
Il fuoco illuminava la stanza, la luce tremolante proiettava sulle pareti spoglie bizzarre ombre.
Il vecchio osservava il soffitto e con una mano accarezzava Arc.
Ogni tanto un colpo di tosse frantumava il silenzio. Il muso di Arc si alzava e abbassava al ritmo del respiro dell’uomo, sobbalzando ai suoi colpi di tosse. In quel respiro greve e affannoso, tutta la vita del vecchio.
La sua solitudine.
Nessuno veniva mai a fargli visita.
Anche quando scendeva in paese, pochi parlavano con lui. Compravano, barattavano e poi via, ognuno per la sua strada.
“Sei un randagio come me” aveva detto l’uomo al loro primo incontro.
Ma non l’aveva scacciato. Perché un randagio sa come si soffre ad essere scacciati, ad essere soli.
Arc e il suo padrone erano entrambi vecchi, entrambi soli, entrambi buoni.
Il cane sospirò, un sospiro profondo, confortato dalla ruvida e calda mano del suo padrone, chiuse i suoi occhi e s’addormentò.

Il mattino arrivò e li sorprese nella medesima posizione della sera precedente. La luce, filtrando dalle finestre, ridestò Arc che evitò di muoversi per non svegliare il suo padrone.
Fiutò l’aria, c’era qualcosa di strano in quella mattina, qualcosa che non andava. Avvertiva un pericolo, anche se non riusciva a capire da dove arrivasse.
Era il suo padrone. Respirava, il torace andava su e giù, prima lentamente, poi all’improvviso velocemente.
Dalle sue labbra sfuggiva un flebile lamento.
Ora Arc sapeva, il suo padrone stava male.
Gli si fece il più vicino possibile, nel debole tentativo di scaldarlo, di confortarlo. Intanto il fuoco s'era spento e la casa vecchia e piena di spifferi era gelata.
Arc aveva paura.
Guardava con occhi tremanti il vecchio padrone, attendeva con ansia che succedesse qualcosa, un segno, un movimento. Niente.
Doveva agire, doveva fare qualcosa, doveva.
Prese una decisione. Scese dal letto, si voltò, guardò di nuovo il suo padrone steso sul letto e con un guaito uscì dalla stanza.
S'avvicinò alla porta d’ingresso, che senza serratura era solo accostata.
Appoggiata ad essa una pesante sedia per impedire al vento d’aprirla.
Arc cominciò a grattare, a spingere, intravedendo la via d’uscita.
Tanto fece da scostare la sedia, non molto, ma per lui era sufficiente.Poi via, veloce nell’aria gelida, giù per il sentiero bianco di neve.
La strada la conosceva a memoria ”Devo fare in fretta, devo”.
Arrivò a una piccola fattoria, una delle tante in cui aveva mendicato, dove aveva rubato cibo ai gatti, e predato i pulcini.
Vide i figli del fattore, due ragazzi che non l’avevano mai trattato bene e si mise ad abbaiare, a correre loro incontro per poi tornare sui suoi passi.
“Ehi guarda, c’è quello stupido cane” disse il più grande.
”Vattene bastardo” gridò l’altro tirandogli una palla di neve gelata.
Ma Arc non scappò, continuò ad abbaiare, non poteva scappare, non doveva.
I due continuarono impietosi a bersagliarlo. Prima palle di neve gelata,poi sassi. Uno di questi lo colpì sopra l’occhio, il muso gli diventò subito rosso. Lanciò un guaito ma non scappò.
Poi un’altra pietra e un’altra ancora alla schiena e alle zampe.Ma non scappò.
”Vado a prendere il fucile,voglio vedere se non te ne vai” minacciò uno dei ragazzi. Proprio in quel momento uscì il padre.
“Che diavolo state combinando voi due? Cos’ha da abbaiare quella bestia?”
“Non sappiamo pa’, è arrivato qui di corsa, sembrava volesse aggredirci
e per difenderci l’abbiamo colpito, è un cane bastardo, forse malato”
“Smettetela, quel cane l’ho già visto, deve essere di un vecchio che abita non lontano da qui, vicino al sentiero che porta in montagna, attraverso il bosco”
“Cosa avrà da abbaiare pa’?”
“Sembra che voglia qualcosa, forse vuole che lo seguiamo. Proviamo ad andargli dietro”
Arc, sempre abbaiando, li condusse alla casa nel bosco.
Pur ferito, riuscì ugualmente a portarli dal suo padrone.
L’uomo era ancora vivo, presto sarebbero arrivati i soccorsi.

Il vecchio fu portato in ospedale e Arc rimase solo nel capanno.
Solo, dimenticato, stremato.
Ogni respiro un dolore, ma il cuore pieno di gioia.
Infine chiuse i suoi occhi.
Per sempre.
Il vecchio padrone si salvò e quando gli raccontarono che se era vivo lo doveva al cane che aveva dato la vita per lui, si mise a piangere.
“Come si chiamava il suo cane signore?” chiese il medico commosso.
“Non aveva un nome, era un trovatello. Per me era il mio amico e basta”
Il vecchio tornò al suo capanno, dove, grazie all’aiuto della gente del paese visse in tranquillità i suoi ultimi anni.

A dieci anni dalla scomparsa del cane, il paese ha cambiato aspetto,congiungendosi alla città. Le fattorie e le cascine non ci sono più. Complessi di graziose villette hanno occupato il loro posto, alcune si
arrampicano sul monte. Il sentiero è ora una strada asfaltata fino all’ingresso del bosco. Il capanno, da tempo silenzioso, è rifugio di animali e nascondiglio di bambini in cerca di avventura.
La storia del piccolo e coraggioso cane e del suo padrone è però ancora viva nel cuore di tutti.

E’ di nuovo settembre, e nella scuola elementare c’è una nuova giovane
insegnante. Ha circa venticinque anni e come primo giorno di scuola narra ai suoi piccoli alunni la favola del cane senza nome.
I bimbi ascoltano attenti, senza interrompere.
”Sapete bambini, io sono nata in una città qui vicino e quando avevo la vostra età avevo un cane. Poi mio padre me lo portò via perché diceva che non si poteva tenere in un appartamento. Di lui non ricordo molto.
Si chiamava Arc.”
“Che bel nome” disse un bimbo.
“Perché non chiamiamo Arc anche il cane della storia signorina?”
“Sapete bambini, mi viene un’idea. Come compito dovete disegnare il cane della storia e scrivere il suo nome. Arc. Va bene?”.
“Siii” risposero in coro i bambini.
I disegni, furono esposti alla mostra scolastica e da quel giorno, nei racconti della gente, il cane non fu più senza nome.
Per i bimbi, per i nonni, per tutti fu Arc.

Qualcuno, giura che in certe notti, sul sentiero del bosco, si vedono strane figure.
Poi di colpo s'alza il vento.
Porta la voce di qualcuno che ride e di un cane che abbaia contento.

                                                          

                                                                       Stefano

 

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